... eravamo nel '56/57. E non credo che fossero spensierate solo perché ero giovane, ma forse perché allora ci si accontentava di poco.
Le migliori estati della mia vita, le ho trascorse qua, in una delle grotte con i cancelli variopinti, solo che la "mia" (o meglio di uno zio - Albino - che, una volta costruitala, non ci andava mai) era più spostata (guardando la foto, più a destra) verso il Faro, il "Cagò, il Cantiere Navale. Lo stradello che portava alla "Grotta Azzurra" (che si vede nella foto che dall'alto a sinistra scende fino ad unirsi alle grotte) ora tutto rimodernato ed in sicurezza, allora non c'era, o meglio c'era ma non più largo di 50/60 cm, aperto, senza protezione e fatto più per capre che per i grottaroli ed i loro familiari e bagnanti. Dai 15 ai 19 anni, appena le scuole chiudevano ed andavo in vacanza, giù in grotta (almeno il sabato e la domenica). Da prima infatti accompagnato e poi quando diventato un po' più grande, da solo e quando decidevo di andarci...ovvero giornalmente Un senso di libertà non più provato. Ricordo la batana, i barattoli legati con la cordicella uno all'altro a guisa di catena, con il fondo bugato per la fuoriuscita dell'acqua quando li salpavi, adibiti alla pesca dei guati. Le anguille tenute nella vasca piena di acqua di mare affinché si spurgassero. La bombola del gas con il fornello che pensandoci oggi, dopo tanti anni, mi sembra che non siano stati mai usati. Un tavolino scorticato, con i quattro zampi con sotto una zeppa per farlo spianare seppur senza riuscirci quasi mai, quattro sedie sgangherate e scompagnate nei colori, dimensioni e piano, una brandina munita di sola rete. Il mare a fungere da frigorifero. Portavo la bottiglia dell'acqua ben turata, scavavo una buca nella rena tra gli scogli, la immergevo lasciandone fuori solo il collo, controllavo che fosse all'ombra ed ogni tanto sorvegliavo che il sole girando, non ci battesse su. E l'azione logicamente veniva di tanto in tanto ripetuta. Oddio, l'acqua non che rimanesse gelata, ma fresca sicuramente. I panini che mamma mi preparava li riponevo su di un cestello a sua volta legato con una cordicella e pendente dalla chiave della volta, per evitare che quando non ero in grotta, le pentegane me li portassero via. Lo so che non era di certo Ibiza, che io allora neppure sapevo che esistesse, ma anche oggi credo, leggendo dei suoi sfarzi, posso dire senza ombra di dubbio, che non ce l'avrei scambiata. Quando si avvicinavano le sette di sera, il sole era scomparso, guardavo l'orologio e mi si gelava il sangue. Facevo la glupa con i rimasugli e le bottiglie vuote, prendevo il bidoncino con i guati, o i moscioli o qualche sgombro (ancora c'erano!!) o i pesci da sasso (sbaratole, bavose, capochioni...) che avevo pescato con la lenza e mi inerpicavo di nuovo per un svogliato ritorno a casa, seppur felice ed orgoglioso che poi sarei stato costretto a bussare con i piedi, visto che avevo le mani impegnate a portare il frutto del lavoro di pescatore di quella giornata. Aggiungo anche, per sincerità del racconto, che l'unico a gradire era mio padre, altrettanto appassionato di pesca e di mare, invece mia madre non è che ne fosse sempre felice, tanto che per farsi più un regalo a se stessa che per farne ad altri il più delle volte regalava il pescato ai vicinati. L'indomani, anche se piovoso, purché non ci fosse un temporale o il diluvio, ripartivo felice. E non è che fossero le dieci del mattino, ma le 5 o al massimo le 6... ma sinceramente la cosa non è che mi pesasse più di tanto, anzi mi piaceva proprio respirare l'aria ancora frizzantina. Non era questione di aria, credo che forse il piacere consistesse nel fatto che nessuno mi obbligava a farlo. Ed infatti credo che questo senso di infinito piacere della libertà (perché alla fine si trattava solo di questo), nel corso delle mie tante primavere, non sia più riuscito ad assaporarne il particolare gusto.
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